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Parasite: il film dell’anno premiato a Cannes è stata una delle rivelazioni del 2019, in grado di far cambiare l’opinione comune sul cinema coreano. Bong Joon-ho fa bingo, entrando anche nella storia degli Oscar 2020 e portando a casa ben 4 premi (miglior film, migliore regia, miglior film internazionale e migliore sceneggiatura originale) e raccontando sul grande schermo una storia di classi sociali, con un’eleganza e una classe uniche.
La lingua parlata nel film è quella dell’architettura, quella degli di spazi vuoti e pieni, di linee e contorni, di design e la sua mancanza, a sottolineare la dicotomia tra ricchezza e povertà di due famiglie diverse e speculari.
Lungi dall’essere soltanto parte di una scenografia calibrata al millimetro, vezzo di un regista orientale, è proprio l’architettura e la composizione degli spazi a parlare a tutti.
Finestrelle, scale, seminterrati, corridoi, salottacci presentano la disperazione di una famiglia, la Kim, alle prese con una condizione al limite della sopravvivenza.
Di contro, il minimalismo moderno, fatto di legno e cemento, gli ambienti ampi costruiti attorno a scale asciutte senza fronzoli, finestre gigantesche e giardini interni sono invece i richiami all’opulenza dell’altra famiglia protagonista del film, i Park.
Con grande sapienza registica, Bong Joon-ho gioca con l’audacia architettonica. La storia cambia con il mutare degli ambienti, si amplia man mano che questi si allargano e salendo ai piani superiori si ha l’impressione di essere nel regno della massima aspirazione sociale.
Salire e scendere scale e piani diventa metafora di raggiungimento o perdita di uno status, come se l’intera Seul fosse costruita in verticale.
Parasite parla all’inconscio dello spettatore utilizzando lo spazio per raccontare il divario sociale e l’illusione di un’ascesa. Uno spazio che nella sua matericità è, in entrambi i mondi, una prigione, asfittica e logora nella miseria, in grado di abbrutire gli animi, agorafobica svuotata nell’estrema opulenza, capace di impoverire chi ci vive.
In questo saliscendi di storie, è l’umanità adattata agli spazi, a mettere in scena se stessa, con i suoi limiti, le sue storture, la straordinaria bellezza del suo essere perennemente precaria.

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