dario agrimi design lifestyle

Dissacrante e geniale, stacanovista e ironico. Dario Agrimi ha fatto dell’arte una professione. O meglio, si è fatto un nome in un mondo in cui c’è ancora tanto da dare. Casa sua è Trani, è il mare, la campagna, è la Puglia. E tutto quello da cui trae ispirazione per le sue opere è esattamente tutto quello che lo circonda. Non si pone limiti, perché per fare questo lavoro “non bisogna crederci, bisogna pensarci”. Al netto delle sue molteplici opere, come Scatola Nera, quello che incuriosisce di Dario Agrimi è la sua personalità, la voglia di lasciare un segno nel mondo dell’arte e la sua impossibilità di allontanarsi per lasciare un po’ di spazio all’uomo, e ai suoi interessi.

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Ascesa

Dario, qual è il mezzo espressivo in cui ti riconosci maggiormente?

“L’arte è l’unico mezzo. Dentro di essa c’è un mondo di possibilità. Basta saper scegliere. Sono convinto che ogni idea abbia il suo mezzo corrispondente per essere realizzata esattamente come dev’essere. Mi riconosco nel mio lavoro e in tutto quello che utilizzo, senza fare distinzione. Sarebbe come avere dei figli e preferirne uno. Sarei un pessimo genitore. Ci tengo a essere un buon genitore”.

Perché in tanti ti definiscono dissacrante? Che effetto ti fa?

“Tendenzialmente sono cinico. Spesso vado ad esternare quello che per me è il giusto valore delle cose, ma è semplicemente il mio punto di vista. Lavoro molto sulla debolezza del genere umano e mi interessa molto la religione come tema. In alcuni lavori la rivisito in chiave ironica, quindi per alcuni dissacro. Non è molto importante ciò che si dica, ma che se ne parli. Fortunatamente ho un’indole atarassica”.

Che percentuale di ironia c’è nelle tue opere?

“Molto alta. Spesso altissima. Attraverso l’ironia si può dare un significato pungente, ma non offensivo, alle opere. È un valore aggiunto di cui non mi priverei mai. Possiamo vederla come una firma implicita nascosta dietro il concetto del lavoro. In alcuni casi rappresenta un segno distintivo di riconoscibilità. Quest’ultima, molto richiesta in alcuni ambienti, spesso attrae gli addetti ai lavori”.

Parlaci di te. Cosa fa l’artista nel suo tempo libero?

“Ricarico le batterie. Mi dedico allo sport, appena posso vado al cinema, ma nulla di più. È così breve che lo definirei più una ricreazione scolastica che tempo libero. Spesso mi sembra di sprecare i momenti in cui non sono in studio a lavorare quindi ho un pessimo rapporto con lo star fermo a poltrire. Da bambino ero un tipo iperattivo, non credo di essere cambiato molto negli anni”.

In quanti, magari in famiglia, quando ti sei avvicinato a questo mondo ti hanno detto di “trovarti un lavoro vero”?

“In famiglia pochi, fuori, tanti. Purtroppo non lo si considera un lavoro vero quando in realtà è uno dei pochi lavori da cui non puoi prendere una vacanza. Quando sei quello che fai non puoi sfuggire a quello che sei. Altra cosa da non sottovalutare è che parliamo dell’unico lavoro di cui si conosce il punto d’inizio, ma non si sa dove si finisce. Solo in arte e in sogno non ci sono limiti. Forse è il nostro essere limitati che non ci permette di vedere le cose dal giusto punto di vista e siamo quasi tutti in cerca di stabilità. L’unica cosa di cui sono certo è che non farei altro. Neanche il calciatore”.

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Meteora

Dove trovi l’ispirazione per le tue opere?

“L’ispirazione è come una nota pubblicità di qualche anno fa: ‘Tutta intorno a te’. Gli spunti sono ovunque. Utilizzando qualsiasi tipo di mezzo per realizzare le mie opere, ciò che stimola la mia immaginazione, può essere anche un suono o un odore. Realmente qualsiasi cosa. Non ho mai avuto momenti di blocco in cui non sapevo cosa fare. È stato fatto così poco che c’è l’imbarazzo della scelta. Ho diversi progetti che seguo in parallelo composti da serie diverse di opere che fanno sembrare il tempo sempre troppo poco. Per questo il tempo libero mi sembra un crimine. Credo che una volta affinato il proprio processo creativo ogni artista vada a ruota libera in sintonia con l’ispirazione che diventa parte integrante nel suo esistere”.

Come è nata l’idea di Scatola Nera?

“Nel caso di Scatola Nera le possibilità sono due. La prima è la mostra personale tenutasi presso lo spazio museale del Palazzo Beltrani a Trani. La seconda è l’opera ‘Scatola Nera’, realizzata qualche tempo fa. Nel primo caso nasce da un’associazione a delinquere formata da me, il curatore Roberto Lacarbonara e il direttore del Museo Niki Battaglia. Subito in sintonia abbiamo deciso di chiamare la mostra con il titolo di una delle opere più irriverenti in esposizione. Un’opera che fosse autobiografica e al tempo stesso costringesse l’osservatore a interagirci in modo attivo.

Nel secondo caso l’idea è nata da una scatola bianca. Quando progetto un lavoro sono abituato a studiare tutte le caratteristiche dei materiali, come interagiscono con altri e che tipo di interazione ha il pubblico con loro. Non parliamo solo di fisicità. Mi interessa molto l’aspetto emotivo. Faccio uno studio di scienza comportamentale per prevedere le reazioni di chi si troverà a contatto con l’opera. Quindi, di ogni cosa, valuto anche il suo opposto o complementare.

La scatola nera, in genere, non è mai nera ma tutti la immaginiamo tale. Aggiungendo il fattore curiosità, che non è mai da sottovalutare, il lavoro è fatto. Cosa nasconderà la scatola nera al suo interno? Dopo aver visto una mostra dove sono esposte quasi 100 opere potrebbe esserci di tutto. È stata l’opera giusta per chiudere un percorso. Chi ha avuto il coraggio di aprirla ha riso, alcuni si sono spaventati, altri altro. Nessuno è rimasto indifferente ed è quella la cosa più importante, qualsiasi cosa si faccia. Serve lo spettatore per dare un valore al proprio prodotto. Purtroppo”.

Cos’è per te Trani? O la Puglia in generale?

“Casa. Ci sono i miei affetti e il mio studio. Il luogo da cui parte tutto. Purtroppo Arte è anche internazionalizzarsi quindi è importantissimo viaggiare e far girare le opere. Appena posso, però, torno alla base”.

Quale consiglio senti di poter dare a chi vuole fare della propria passione un lavoro?

“Non bisogna crederci. Bisogna pensarci. Qualsiasi cosa si faccia è importante chiedersi: quanto tempo della mia vita sono disposto a sacrificare per diventare ciò che voglio diventare? Quindi il consiglio è questo: farsi la domanda, darsi la risposta e rimboccarsi le maniche, perché in questo mondo solo le malattie sono gratis”.

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Girotondo

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